A 64 anni dalla Nakba

L'incontro di Roma
I sionisti festeggiano...
noi siamo in lutto

resoconto dell'incontro del 4 maggio a Roma

di Daniela Di Marco

Mentre le massime autorità dello stato italiano, il Presidente del consiglio Mario Monti, il presidente del Senato Renato Schifani, il presidente della Camera
Gianfranco Fini, erano intenti a festeggiare il 64° anniversario della nascita dello stato
di Israele, a Villa Miani, a Roma, alla presenza del neo ambasciatore israeliano Naor Gilon, circondati dai vertici dell’ebraismo italiano, da deputati, rappresentanti del mondo dell’imprenditoria, dell’economia e della cultura, e gli ossequiosi giornalisti pronti ad immortalare la messinscena dei vip di turno; il 4 Maggio, a Roma, presso il Centro Congressi Frentani, nella totale assenza dei media, si celebrava un’altra commemorazione.

L’altro lato della medaglia della nascita di Israele, l’altra faccia della Storia. La Nakba Palestinese.

Al Nakba, La Catastrofe, è l’appellativo che i Palestinesi danno al 15 Maggio 1948, data in cui il nascente stato di Israele si è impossessato delle terre, delle case, delle vite del Popolo Palestinese, che, in un solo giorno, si è trasformato in una Nazione di Rifugiati.

Shabaka, la giovane rete di solidarietà con il popolo palestinese, ha organizzato una giornata dedicata alla Memoria, per non dimenticare che, purtroppo, l’Olocausto non è stato uno solo, ma due, e che uno continua ancora! E che, se con risoluzione ONU 60/7, il 27 Gennaio è stato scelto come giorno per il ricordo della Shoah, altrettanto bisognerebbe fare con il 15 Maggio. Ma, come ha ricordato Wajih Salameh, presidente della comunità dei Palestinesi di Roma e del Lazio, nel suo intervento alla nostra conferenza, dal 2010, è vietato per legge ai palestinesi persino di celebrare la commemorazione della Nakba.

Immagino lo scandalo per quanto appena affermato! Immagino le accuse di antisemitismo. Ma i miei possibili detrattori dovrebbero tenere bene a mente che non c’è nulla di antisemita nel sostenere apertamente il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli, compreso e non escluso quello palestinese, vittima non dell’Ebreo in quanto tale, ma del Sionismo.

E cos’è il sionismo? Il movimento politico, sinonimo del nazional-sciovinismo ebraico, che, sin dal suo nascere, alla fine del XIX secolo, ha chiesto una patria specificamente ebraica in Palestina, favorendo e incoraggiando l’aliya, l’immigrazione in Terra Santa. Il sionismo ha vinto con la nascita di Israele. Ma Israele è sorto in una terra che non era disabitata, che non era senza un popolo. Anzi, per essere precisi, prima della creazione artificiale di quello stato, in Palestina musulmani, cristiani ed ebrei, vivevano assieme …

Ma i sionisti volevano per sé tutta quella terra, il suo suolo, le sue risorse, gli ulivi, le acque, perché volevano creare lo stato esclusivamente ebraico. La conseguenza immediata per gli abitanti originari non era quella di essere sfruttati, come accade per il tradizionale colonialismo, ma quella di essere letteralmente sostituiti.

Nel corso del 1948 sono stati espulsi ed espropriati della loro terra e delle loro case più di 750 mila palestinesi. Un esodo forzato e non l’unico, attuato con il terrore, che ha generato, ad oggi, 6 milioni di rifugiati, tanti quanti le presunte vittime della shoah. L’esercito israeliano ha sistematicamente occupato villaggi e città, devastando case e proprietà, resistergli ha significato il massacro.

Mohammed Hannoun, presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia, nel suo discorso, ha citato proprio uno ad uno tutti i campi profughi, e i tanti stermini che vi sono stati compiuti, fino a quello più recente e famoso di Sabra e Chatila.

I Rifugiati oggi sono privi dei diritti civili, del diritto alla sicurezza personale, alla libertà di movimento, all’accesso al lavoro. Prima del ’48, i Palestinesi possedevano il 90% della loro terra in Palestina, oggi ne possiedono ed hanno l’accesso solo al 10%, costretti a vivere negli stati arabi confinanti, o nei disastrati campi profughi dove non sono garantiti i servizi basilari, come acqua, elettricità, fognature, …

Questo hanno testimoniato anche l’Imam Raed Daana, Mohammad Amru, direttore dell’Accademia dei Rifugiati Palestinesi, e Amin Abu Rashed, della Campagna europea per la rimozione del muro e degli insediamenti, con l’ausilio di video e slide sull’esodo palestinese, sulle loro pietose condizioni di vita, sulla costruzione del muro dell’apartheid in Cisgiordania.

Significativa la testimonianza della signora Umm Kamel El Kurd. La sua famiglia fu cacciata da Gerusalemme ovest, dove viveva, quattro anni prima che lei nascesse. L’UNRWA aveva concesso ai profughi del ’48 di Gerusalemme ovest, della terra a Sheikh Jarrah (altro quartiere di Gerusalemme est). Nel ’67 sempre l’UNRWA chiese ai rifugiati di Sheikh Jarrah di riconsegnare la carta di rifugiato in cambio della proprietà della casa. Così ha inizio il calvario di Umm, che, per la seconda volta in vita sua, si è trovata nello status di rifugiata a casa sua. Infatti i coloni israeliani hanno preso di mira questo quartiere e la casa di Umm, buttandola fuori con il marito disabile, morto senza poter rivedere la sua casa, e i figli. Umm ha intrapreso una battaglia legale che non è ancora stata risolta, perché le leggi e i cavilli burocratici di Israele sono infiniti e sanciti ad hoc perché il palestinese non possa mai godere dei suoi diritti. Dal 2001, con la compiacenza della polizia israeliana, una famiglia di coloni si è impadronita della sua casa. Da questi vicini la coraggiosissima signora ha sopportato soprusi di ogni genere, senza mai ricambiare le angherie. Hanno provato di tutto per farla andare via, compreso offrirle un assegno da dieci milioni di dollari e uno in bianco. Umm non si è mai fatta piegare, ha sempre rifiutato qualsiasi cifra. Non essendo riusciti a spodestarla con le buone, sono passati alle cattive, e un pomeriggio, mentre era da sola in casa e dormiva, sei soldati israeliani hanno fatto irruzione e l’hanno sfrattata. Adesso una famiglia di coloni all’anno si trasferisce a vivere nella sua casa, perché i coloni non possono essere sfrattati se non dopo aver passato almeno 365 giorni in un luogo. Umm Kamel da allora vive sotto una tenda, vicino casa sua. Ma anche la sua tenda è stata presa di mira, in 4 mesi gliela hanno buttata giù sei volte. Lei non se ne andrà mai, simbolo della silenziosa resistenza degli oppressi palestinesi, della lotta contro la giudeizzazione di Gerusalemme, della lotta contro la barbarie di uno stato che arreca onta alla parola democrazia.

Di tutto questo si dovrebbe rendere testimonianza, anche di questo i giornalisti dovrebbero occuparsi, anche al popolo palestinese dovrebbero essere dedicate le pagine dei libri di storia. Valgono invece due pesi e due misure, come se ci fossero popoli di serie a e popoli di serie b. Perché? La Nakba continua ancora oggi, non importa a nessuno e l’indifferenza nostra permette a Israele di spadroneggiare con la complicità di USA e UE.

Fino a quando?





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